Etica e altri stupri lievi
O dell’amore gay ai tempi del POS e delle camporelle bergamasche. Cronache di compleanni tragici e il mio resoconto.
Tutto inizia da questa chat asfissiante nella quale ogni due per tre “manchi, vediamoci, scopiamo”. Racconti di Mario (nome di fantasia) che mi hanno commosso: le camporelle -spero sappiate che siano, sennò siete troppo pudichi o pavidi- serotine, il nettare di Francesco degustato, i dettagli tragici del fatto che un fallo troppo grosso asfissiasse la bocca di Francesco. Insomma, il grande fratello era più commovente.
Ma un cuore leggero non può reggere tutto ciò. E neanche il mio — ego. Che, sentendosi dire “non è successo niente” e cioè “è successo tutto, ma non ti dirò niente, perché non lo sopporteresti”, si incazza parecchio. E visto che non solo lo sopporto ma lo sostengo, perché l’amore, anche quando pavido, frivolo, da limonata al Toilet e via di lagne sul “ci rivediamo per scopare? Di’ al tuo nuovo frequentatore che vieni a casa mia per dormire e che siamo solo amici e non abbiamo mai fatto nulla, perché abbiamo la coscienza pulita quanto Caifas” merita di essere condiviso, eccovi questa storia patetica. Che è un funerale etico alla mia sopportazione degli ipocriti e alla consapevolezza che questi soggetti finiranno nel Cocito, invece.
Una notifica come un pugno
Pomeriggio bolognese. Di quelli appiccicosi, languidi, saturi di aspettative e malinconie postindustriali. Apro Instagram. Chat a caso — o forse no. Chat che non era neanche mia perché il profilo era di Mario, che aveva decretato autonomamente che meritassi la fiducia della passkey ma non avessi il cuore di reggere la verità dei fatti.
Ebbene, Vado in cima. Leggo: “Scopiamo di nuovo? Bel bacio. A te li ho dati per bene, a lui no.”
Quel “a lui no” è peggio di una coltellata: è lo sghignazzo della verità che ha deciso di svelarsi nel momento meno cinematografico possibile. D’altronde, nella mia vita i colpi di scena non avvengono mai in spiaggia con il tramonto, ma sempre nella penombra di un bagno cieco o di un monolocale universitario con mobili IKEA sbeccati.
Flashback bergamasco: il compleanno nella Bassa
Qualche tempo fa ero stato invitato a un compleanno nella bassa bergamasca — un luogo che pare uscito da una short story gotica ambientata in un centro sociale occupato da studenti di Design e Filosofia Morale. L’ospite: Mario (nome di fantasia ma destino autentico). Mario è uno di quei ragazzi con cui si intrattiene una relazione a metà tra il corteggiamento e la teodicea: ci si chiede perché?, perché Dio permette il male?, perché mi piace uno così? Mario mi piaceva per ego, come ci piace chi ci guarda come fossimo qualcosa da interpretare e non semplicemente da scopare. Ma anche lui sembrava rispondere bene al mio teatrino, masochista e necessario. Lo conoscevo abbastanza: quanto basta per volerlo scopare ma non abbastanza da farlo accadere davvero. Siamo nell’ambito di quel desiderio speculativo, narcisista, post-junghiano: ci piace chi ci piace perché gli piacciamo. Il meccanismo è noto, basta leggere un po’ Lacan o semplicemente ascoltare una canzone di Elodie, che odio.
Mario lo sapeva. E io lo sapevo che lo sapeva. Ma non lo facevamo accadere, con una grazia crudele e sadica degna della Marchesa de Merteuil.
Al suo compleanno, Mario aveva convocato un’accozzaglia degna di un reality queer scritto da Roland Barthes: borghesi finto-bohémien, pick-me boys travestiti da Wittgenstein emotivo, borghesi che fanno finta di essere poveri, studenti con l’uncinetto al posto della dignità, omosex pasoliniani con l’app TikTok e la voce di Walter Chiari, delle Anna Wintour da discount che piangono sulla memoria leziosa delle loro amiche con lo yacht che li hanno sottratti all’ordine borghese-capitalistico delle cose e ora gli rimane solo il poncho da fare in una settimana per avere i 12 cfu.
e ovviamente, lui: Francesco (altro nome di fantasia).
L’eromenos e l’erastes
Francesco era una vecchia fiamma di Mario. Ma io benché l’avessi già capito, ne ebbi la conferma troppo tardi, quando le guance si erano già sfiorate, le ciglia già incastrate, e i sorrisi a mezzobocca sussurravano una storia che il mio ego non aveva ancora decifrato. Mario non me lo disse, ovviamente. Preferì recitare la parte dell’amico che ti dà bacini solo per gioco, come fanno gli attivisti fluidi di Milano Est nei bagni del Toilet. “Con te non potrei mai,” mi disse una volta. “Se capitasse, capiterebbe. Ma dai, stiamo bene così.” Intanto io bevevo spritz scaduto con il fresco sulla pelle di chi ha appena usato la jacuzzi dell’ospite e studiavo la prossemica, la grammatica umorale di quelle scene, che si traduceva in “sappiamo già tutto, ma è bello perché è un fuoco che resta sempre tacito, e c’è chi brucia di qualcosa che non conosce”. Se non l’avete capita, leggetevi Borges.
Ebbene, intanto con Francesco, capitava. Più volte. Da amici. Col piacere e l’arroganza serafica del potere erotico nascosto nelle relazioni fluide. E allora il dubbio socratico che mi veniva rifilato da Mario — “chissà, non so, magari” — si trasformava con Francesco in un assenso cesaricida: deciso, netto, brutale. Foucault, se ci guardasse da lassù, non saprebbe se ridere o masturbarsi.
Notti, letti e manipolazioni
Io quella notte —quella del compleanno, in cui rimanemmo pochi superstiti di quella festa che pareva un valzer all’orrore umoristico di Ibsen— la passai in uno sgabuzzino. Letteralmente. Una camera così grigia che perfino Schrödinger avrebbe detto “lasciamo il gatto fuori, che qui deprime pure lui”. Con me, il fruitore di ponchi, un giudicatore estetico bergamasco che mi squadrò e mi sibilò: “Tu sei bello. Ma con quella collanina argento sei cheap. Puntavi più in alto, non ci sei arrivato. Puoi, devi migliorare.”
Aveva ragione. Lo ammetto. Ma l’ego di Mario era impegnato a risucchiare in una relazione tossica in proiezione anche ciò che gli accadeva attorno; chi gli accadeva attorno. Mi disse: c’era una compagna al liceo che s’innamorò di me per anni. anni, ti dico, che cretina, mi scrisse un libro che pareva il Pentetauco, ci rimase male.
Anch’io, ti direi.
Nel frattempo, Mario e Francesco condividevano letto e camporelle. Sesso triste, iper-analizzato, trasformato in critica musicale e dramma ontologico.
Quella sera, Francesco e io discutemmo di relazioni tossiche, gente pickme, la fluidità mortale delle relazioni aperte e la loro ontogenesi che passa dalla mancata decodificazione, come ben saprete, dei pattern storici non acuiti nel tempo. Poi mi raccontava (non a me direttamente, ecco; in quella chat, ma per me era una questione protagonistica: il vero deuteragonista, fermo a Lady Gaga in discoteca ormai era Mario) con tono luttuoso e à la Ninetto d’Avoli di un rapporto orale finito male per colpa di un fallo troppo grosso: “mi ha quasi soffocato”, raccontava.
Neanche a dirlo, più scorrevo la chat tra lui e Mario e più era tregenda di faccine, inviti, mancamenti, picchi di testosteronico sentimentalismo da profilo fake Twitter con username tipo @Amare_è_Volare.
Francesco, il profeta della contraddizione
Francesco aveva anche il coraggio, vi dicevo, di pontificare, con me, sulla decadenza morale dell’omosessuale contemporaneo. “La comunità LGBTQ+ si è persa”, mi diceva. “Sesso senza dialogo, relazioni aperte, pick-me ovunque”. Peccato che nel mentre si muoveva come una cubista del Novecento tra tre chat contemporaneamente, dispensando languori, desideri e minacce passive-aggressive.
Mi diceva che ho ragione, che è vero, ma soprattutto che lui appunto non capisce chi fa il pick me, chi vuole imporsi, chi mente, il sesso è irrealistico se non accompagnato dal dialogo. Nel frattempo, scopro Nottolo, ebreo, circonciso postumamente, un Kafka delle camporelle. Uno reo – parole di Mario rifilate Francesco – di avere un fallo troppo grosso per l’orifizio medio. Si parla quindi di nettare degustato, di serate erotiche improvvisate, di affetto, di baci dati e non dati.
Tutti i protagonisti sembrano usciti da un simposio ateniese senza etica né pathos, con l’ego al posto del vino e le emoji al posto delle cicale.
Ora, il lettore deve avere un contesto: Mario è attivo. Francesco finge di esserlo, anche se pare un ossimoro. Ebbene, quando ci ho parlato di sghicio in quella festa, con Francesco, soli, isolati in terrazzo, mi ha rivelato di non sapere neanche cosa fosse una religione abramitica — ironico, considerando che Nottolo -per volontà hegeliana, perché è tutto distopico qui- è stato il frequentante di Mario per non poco tempo.
La massima era stata “Ho vomitato. È colpa di Riccardo. Non ha fatto nulla, ma mi ha fatto arrabbiare. Lo odio. È tossico. Manchi. Quando scopiamo?” Insomma, pure manipolatore!
Io ero lì, a sorbire questa litania digitale come se fossi diventato il suo shrink privato o peggio: la madre di un adolescente emo nel 2007.
Caifas e le camporelle
Mario non mi ha mai confessato nulla. Quando glielo chiesi direttamente “Ma ci avete mai fatto qualcosa, tu e Francesco?” — mi rispose con lo stesso tono che si usa per negare una carbonara riuscita male: “Ma dai... non abbiamo fatto niente.”
“Niente”, in questo vocabolario è l’equivalente di “abbiamo scopato, ma in modo eticamente compatibile con la nostra coscienza flessibile, e comunque sei un amico, no?”
E così oggi, dalla mia magione bolognese (che chiamare “casa” è un esercizio di romanzo fantastico), scrivo questo piccolo funerale etico. Non solo alla mia pazienza, ma anche alla farsa delle relazioni postmoderne.
Perché l’amore, quando è bugiardo, è ancora più volgare del sesso. E perché mentre loro si dicono “scopiamo ancora?” con le coscienze pulite come Caifas la sera del giovedì santo, io li inchiodo — in pagina.