Perché i gay sono quasi sempre in relazioni aperte?
Una risposta c’è ed è banalissima. Così banale che non è “perché gli piace così”, ma è che l’omosessuale non può permettersi di essere borghese.
Più che una scelta, la relazione aperta, nel mondo gay, è un’eredità.
Nel panorama relazionale contemporaneo, una delle costanti più evidenti — e meno tematizzate seriamente — riguarda la struttura delle relazioni omosessuali maschili: una proporzione altissima di coppie gay è non monogama. Non necessariamente tutte ufficialmente aperte, ma sicuramente molte più rispetto alle coppie eterosessuali. E anche nei casi in cui l’accordo di coppia prevede la fedeltà, la sessualità esterna esiste comunque: sotto forma di fantasie, sexting, porno interattivo, app, storie passate mai chiuse o future sempre in potenza.
Non è solo una questione aneddotica: lo confermano ricerche sociologiche, dati sulle app di incontri (persino quelle dedicate alle coppie), osservazioni etnografiche nei contesti urbani LGBTQ+, e perfino i profili psicologici. Quindi la domanda è lecita: perché?
Perché questa instabilità o apertura sessuale sembra così radicata nel mondo omosessuale maschile?
La risposta più comune — “perché a loro piace così” — è sbagliata. O meglio, è sbagliato pensarla indipendente da qualcosa, anziché come il risultato di altre forze che convergono in qualcosa — magari un patto, una rassegnazione, un compromesso.
La verità è che l’omosessuale, oggi come ieri, non può ancora permettersi di essere veramente borghese.
Sessualità come struttura d’identità, non come semplice atto
Partiamo dall’inizio. Per molti uomini gay, la sessualità non è un comportamento, ma una condizione fondativa dell’identità. Questo è il frutto di una lunga storia: per secoli, essere gay significava fare sesso con altri uomini. Non c’erano termini come “orientamento sessuale”, né spazio pubblico per coppie stabili, né possibilità di riconoscimento sociale o affettivo. La dimensione erotica era l’unico codice di riconoscimento.
In questo contesto, il corpo diventa il primo veicolo di verità. Il desiderio, la disponibilità, la performance sessuale — anche solo nella fantasia — sono vissute come parte essenziale dell’essere sé stessi. E questo segna profondamente la costruzione delle relazioni gay: non si parte dall’affettività per arrivare al sesso, ma spesso il contrario.
È per questo che nelle coppie gay il sesso “fuori” non è vissuto necessariamente come tradimento, ma come ritorno a sé, come ribadire un’identità che non si vuole perdere dentro la coppia.
La pressione estetica e il valore del desiderio come valuta sociale
Nel mondo gay maschile, l’estetica e la desiderabilità hanno un peso sociale enorme. In assenza storica di riconoscimenti istituzionali (famiglia, matrimonio, figli), il corpo e l’erotismo sono diventati l’unica forma di "status" disponibile per decenni.
Anche oggi, per moltissimi gay, essere desiderato è la principale fonte di autostima e visibilità. Questo crea una dipendenza dal desiderio altrui, che mina la stabilità relazionale: si sta in coppia, ma si cerca conferma altrove. Non per tradire, ma per non sparire. Nella coppia etero, il ruolo sociale di "moglie", "madre", "compagna" è riconosciuto. In quella gay, il ruolo è fragile: la coppia vale solo finché è percepita come viva, giovane, desiderabile.
La monogamia è un concetto importato, non elaborato
La monogamia come istituzione non è un modello universale: è un’invenzione socio-culturale, tipicamente legata alla borghesia europea post-industriale. Serve a garantire la stabilità economica, la legittimità della prole, la trasmissione del patrimonio, la regolazione del desiderio secondo l’etica protestante del lavoro e della famiglia. È, in sostanza, un meccanismo di controllo del corpo e del tempo.
Le coppie eterosessuali crescono dentro questa logica, la interiorizzano fin da giovani — anche se la tradiscono spesso. Le coppie omosessuali, invece, vi arrivano tardi e da fuori, spesso per imitazione, non per evoluzione.
Il risultato è che la coppia gay tende a voler essere monogama in superficie, ma resta fluida in profondità. Perché? Perché quel modello non è davvero loro, e perché non sono cresciuti con strumenti simbolici ed emotivi per abitarlo davvero. Non hanno avuto il contesto passivo e nemmeno proattivo per sviluppare un pattern su quegli stessi pattern relazionali e percettivi. È come parlare una lingua straniera imparata da adulti: si può essere bravi, ma non sarà mai quella madre.
La libertà recente produce isteria, non stabilità
Un altro nodo fondamentale è temporale. La libertà di coppia per i gay — almeno in Occidente — è una conquista recente. I matrimoni egualitari, le adozioni, la vita pubblica senza paura, sono realtà degli ultimi 20 anni, in media. In Italia, per dire, le unioni civili sono del 2016. Fino a ieri (letteralmente), essere in coppia con un uomo era socialmente invisibile o penalizzante.
E cosa succede quando una libertà arriva troppo tardi? Non genera sicurezza, ma frenesia. Ansia da prestazione. Fobia di perdere tutto. In molti uomini gay questo si traduce in un rifiuto inconscio del limite: ogni forma di esclusività viene percepita come una possibile nuova costrizione. E allora si “apre”, si deroga, si tollera, si ironizza.
Ma sotto questa elasticità apparente c’è spesso una fragilità strutturale del legame, che si nutre di silenzi, patti impliciti, negoziazioni sfiancanti. E in molti casi uno dei due partner — quello più “romantico”, o meno sessualmente sicuro — soffre, si sente inadeguato, cede al compromesso pur di non perdere l’altro.
L’asimmetria dei desideri all’interno della coppia
Uno degli aspetti più frequenti, ma raramente tematizzati, è la dissimmetria interna. Uno dei due partner è più sessualmente attivo, l’altro più romantico. Uno vorrebbe chiudere, l’altro aprire. Uno regge la promiscuità, l’altro la subisce.
E spesso si arriva a un compromesso non paritario, ma tacitamente accettato, per non rompere tutto. Dietro la facciata di “relazione aperta consensuale”, c’è talvolta un equilibrio sbilanciato, in cui uno dei due è “costretto a crescere” più in fretta, a "capire", a "non fare scenate", a diventare adulto prima del tempo.
Adolescenza posticipata, desiderio perpetuato
La maggior parte degli uomini gay non ha avuto accesso a un’adolescenza amorosa “normale”. Quella in cui si ha una cotta a 14 anni, si sbaglia a 16, si ha una storia intensa a 18 e una delusione bruciante a 20. Per moltissimi, tutto questo inizia tardi: a 25, 30, 35 anni. Spesso solo dopo il coming out, e spesso in ambienti adulti, ipersessualizzati, competitivi.
Ecco allora che la prima relazione importante non arriva quando si è ancora plastici e sperimentali, ma quando si ha già un’identità definita. Eppure si è ancora, sotto, quell’adolescente che deve vivere tutto e subito, che non vuole perdere nulla.
Questa posticipazione adolescenziale crea un eterno ritorno del desiderio: si è in coppia, sì, ma si vuole ancora “giocare”, ancora “vedere chi c’è in giro”, ancora “sentirsi desiderabili”. Per questo molte relazioni diventano dei patti nervosi, dove l’amore e l’erotismo si contendono lo stesso spazio. E spesso, uno dei due cede.
Il mondo gay è costruito sulla disponibilità continua
Infine: la cultura gay è una cultura dell’accesso sessuale continuo. Non solo per la componente biologica (il desiderio maschile, in media, è più orientato alla ricerca della stimolazione), ma per un’eredità storica molto concreta: club, cruising, porno, saune, Grindr, Instagram, voyeurismo, sexting.
Il corpo maschile gay è, fin dagli anni ‘70, una merce, un simbolo, un’identità. E questo ha creato un linguaggio comune del desiderio che è veloce, diretto, permanente. Anche per chi è in coppia.
In questo contesto, essere monogami significa spesso isolarsi culturalmente, tagliarsi fuori da uno spazio di socialità e riconoscimento. È un gesto radicale, che pochi sono disposti a compiere davvero — e che molti fingono di compiere per paura di sembrare “fuori dal giro”.
Il trauma generazionale: AIDS, silenzio, rimozione
Molti uomini gay crescono nell’ombra di un trauma collettivo mai metabolizzato: l’AIDS. Negli anni ‘80-’90, la sessualità gay è stata associata alla morte, allo stigma, alla vergogna. Questo ha inciso profondamente sulla psiche collettiva: da un lato paura e colpa, dall’altro un culto della vita erotica come riscatto. La generazione successiva ha ereditato questa tensione senza strumenti per elaborarla. Il risultato è un approccio isterico alla sessualità, dove si oscilla tra euforia libertaria e ansia da contagio, tra bisogno di contatto e fobia del legame.
Il concetto di fedeltà va ripensato da zero
In realtà, la questione centrale non è “monogamia vs apertura”, ma cosa significhi fedeltà.
Nel mondo gay, spesso la fedeltà diventa fedeltà affettiva: “Ti amo, ma posso fare sesso con altri.” Oppure si inverte: “Sono fedele nel corpo, ma altrove con la testa”.
L’impossibilità di una rappresentazione pienamente credibile
Le coppie gay, anche quelle felici e stabili, non hanno ancora una rappresentazione culturale forte, non stereotipata, non idealizzata. O sono ridicolizzate (la macchietta), o mitizzate (la coppia perfetta), o feticizzate (belle, giovani, muscolari, di sinistra, sempre ironiche). Nessuno sa bene cosa sia davvero una "coppia gay normale", e quindi tutti si sentono anomali. E questa percezione può portare al sabotaggio, all’invidia, al continuo mettersi in discussione.
Non è (solo) una scelta: è un’eredità
Quindi no, le relazioni aperte non sono una moda gay, né una preferenza naturale. Sono la somma di più forze culturali, storiche, psicologiche e strutturali: l’identità costruita intorno al sesso; la monogamia come modello importato e non elaborato; l’ansia da libertà recente; l’adolescenza rimandata e la cultura della disponibilità continua. Tutto questo fa sì che la coppia gay maschile sia più esposta alla negoziazione perpetua, alla fatica di tenere insieme amore e desiderio, e spesso — non sempre, ma spesso — ceda alla soluzione più gestibile: aprirsi. Ma aprirsi non vuol dire essere felici. E soprattutto, non è una conquista in sé. È un modo di sopravvivere in un mondo che ancora non permette davvero agli omosessuali di vivere -posto che lo si volesse- come i borghesi: in pace, nella ripetizione, nella protezione del già detto.
Ma il lettore capirà che in questo caso il “"borghese” è il sinonimo di una ritualità già decodificata; di un pattern conosciuto, che ha un fondamento latente e implicito in società, che permetta di riconoscersi in qualcosa che autodetermini anche per la funzione psicosociale che l’individuo ricopre.
Il giorno in cui sarà davvero possibile essere “noiosi” anche da gay, allora forse potremo vedere una trasformazione profonda. Ma oggi, in larga parte, la coppia gay resta ancora un esperimento in tempo reale, senza archivio, senza radici.
decisamente interessante!